Arte, scienza e tecnologia spirituali
di Marcello Aitiani
Pubblicato il 10 settembre 2024 su Ytali
«Il mondo cammina! […] Andiamo verso lo Spirito.
È certo, come un oracolo, ciò che dico»
(Arthur Rimbaud, Une saison en enfer)
Quando ho ricevuto il breve messaggio di Diana Toccafondi[1], in relazione a un mio articolo pubblicato dalla rivista Aboutartonline[2], ho subito avvertito il desiderio di citarlo all’inizio di questa riflessione:
«Caro Marcello, mi sento in piena consonanza con quello che scrivi e ne condivido il senso profondo.
Considerazioni in qualche modo simili mi ha suscitato la visione della tanto decantata mostra di Kiefer (artista che peraltro apprezzo) a Palazzo Strozzi.
Ti mando il commento che ho pubblicato su Facebook.
Sono stata a vedere la mostra di Anselm Kiefer, a Firenze, che chiude il 21[3]. Premetto che sono un’estimatrice di Kiefer e di molte sue opere. Detto questo (o forse proprio per questo?) devo dire che poche volte sono uscita da una mostra con un così profondo senso di vuoto e di freddo. L’unico pensiero che mi ha suscitato tutto quell’oro raggricciato è stato quello del Ferrero Rocher.
Non è colpa di Kiefer. Il fatto è che siamo un’epoca di incartatori di cioccolatini, e l’arte si adegua. Non abbiamo più fame ma solo “voglia di qualcosa di buono” e così anche un grande artista come Kiefer si adatta a fare l’Ambrogio di turno. Peccato.
Uscendo, ho visto un ragazzo disteso sulla pietra rovente di Palazzo Strozzi, seminudo, con i piedi scalzi neri di sporco e di fatica. Sembrava il Cristo del Mantegna, oppure (lui sì) un angelo caduto. Forse aveva fame. Non ho avuto il coraggio (per rispetto, e pudore) di fargli una foto. Così ho fatto scatti da turista al duomo, al battistero, al campanile. Tutte cose fatte da epoche affamate».
Nella sua e nella mia riflessione non è in ballo l’arte di Kiefer o la sua esposizione, ma la condizione del nostro contesto di vita, occidentale e per vari aspetti ormai planetario. Diana parte dall’arte, e ugualmente farò io. Sì, ormai siamo in «un’epoca di incartatori di cioccolatini, e l’arte si adegua».
È la fotografia di un’Italia e di un mondo disorientati, sterili e in varie realtà sociali impoveriti economicamente, ma soprattutto umanamente a causa della perdita della consapevolezza di ciò che davvero siamo, della nostra dignità. Da tale smarrimento spesso nascono anche stati depressivi, senso d’impotenza, disprezzo e indifferenza per se stessi e per l’altro da sé e – last but not least – per una cultura autentica, da cui fioriscano passione di vita, ricerca di un senso dell’esistere da perseguire con libere scelte consapevoli. I termini cultura e coltura germogliano dalla stessa radice ed entrambe richiedono impegno continuo, con mani, mente, azione e cuore per portare alla massima evoluzione la potenzialità del seme. Un’educazione e una cultura che chiamerei paideia, epurandola dalla visione aristocratico-elitaria dell’antichità, che fertilizza individui e società, rendendo possibile la coesione tra esseri umani più felici, non alienati e inferociti; che accende lo Spirito, illumina e dà senso alla storia, anche della nostra esistenza.
Invece ormai la diversità della sfera culturale che aveva una sua autonomia dagli affari è definitivamente abolita e sostituita dalla «“universalizzazione della cultura commerciale”»[4] , secondo le parole del sociologo Gilles Lipovetsky riportate criticamente da Marc Fumaroli. Apertura e chiusura delle Olimpiadi di Parigi, nella loro banalità, nella loro bruttezza estetica e bruttura etica, ne sono una recentissima ed evidente dimostrazione.
È una concezione meramente sociologica della cultura, quale ad esempio emerge nell’espressione “cultura mafiosa”: pura registrazione del modo d’agire, nel bene e nel male, dominante in un gruppo sociale in un certo periodo storico. Manca ogni riferimento a ciò che trascende la dimensione puramente fattuale, alle aspirazioni che oltrepassino la disperante robottizzazione cui l’umanità sembra indirizzata a causa del modo distorto con cui intende e utilizza le tecnologie.
Nessuna paideia, appunto. La nostra società è dominata dalla tecno-finanza in quanto funziona e produce grandi ricchezze per alcuni? Questa allora assurge a cultura del nostro tempo[5]. Così anche il mondo dell’arte diventa il suo chauffeur privés, il suo Ambrogino.
Nella rivista “Forbes” del 15 gennaio 2024 è riportato il dato di Oxfam[6]:
«L’1% più ricco possiede il 43% della ricchezza globale. […] Continua a crescere la disuguaglianza economica […] dal 2020 i cinque uomini più ricchi al mondo hanno più che raddoppiato le proprie fortune, passando da 405 miliardi di dollari a 869 miliardi di dollari, mentre la ricchezza del 60% più povero – quasi cinque miliardi di persone – è, al contrario, diminuita […]. “I governi di tutto il mondo stanno facendo scelte politiche deliberate che consentono e incoraggiano questa concentrazione distorta della ricchezza, mentre centinaia di milioni di persone vivono in povertà».
Una pazzia. Non si tratta solo di ricerca ossessiva della ricchezza, è in ballo il potere. Senza spendere parole, bastano poche righe di Goethe dal secondo Faust:
«Mefistofele [parlando del «buon imperatore»] Quando lo trastullammo e gli riempimmo le mani di falsa ricchezza, ad un tratto gli parve di poter comprare il mondo intero. Era giovane quando salì al trono; e così, a torto, conchiuse che regnare e spassarsela fossero due cose che potevano accordarsi; anzi, che questo era bello e desiderabile.
Faust Errore gravissimo. Chi è destinato a comandare, nell’esercitare il comando deve trovare la propria felicità. […] Godere rende volgari.
Mefistofele Be’, l’imperatore non è proprio come dici tu. Se l’è goduta, lui, e come! Intanto l’impero cadde nell’anarchia…»[7].
Non mi soffermo sulla minoranza di “imperatori”, della finanza (persone, fondi d’investimento…) e della politica, regnanti oggi nel mondo, né sui vari satrapi al loro servizio, ma rifletto sul fatto che questi leader non crescono da soli, sorgono dal terreno dei popoli e dei singoli che li compongono. Guardiamo allora anche al piccolo “imperatore” che regna nell’ego di ognuno di noi. Teniamolo sempre sotto osservazione per renderlo più piccolo, facciamo un percorso educativo, un serio, ininterrotto processo di meditazione contemplativa. Non trattabile ovviamente in breve; solo poche battute ricordando che meditare, meditari, deriva dalla radice MÂ nelle lingue indoeuropee (da cui anche “medicina” e “medico”): misurare con la mente, riflettere, approfondire; e contemplare da cum templum: osservare il volo degli uccelli. Da questa voce augurale: sollevare lo sguardo verso un diverso cielo, un oltre intravisto che affascina, gioirne dopo lo sforzo della meditazione. «La radice del dichiarato interesse di Florenskij per l’altrove e il diverso, rispetto alle regolarità e alle leggi acquisite – osserva Silvano Tagliagambe –, sta proprio nella sua convinzione che la mente costruisca sé stessa e si comprenda sempre meglio andando, con l’immaginazione produttiva e il suo focus imaginarius, al di là di ciò che percepisce e dell’ambiente in cui vive»[8].
Oggi tutto questo è perlopiù ignorato, anche nei contesti artistici, l’antica armonia dell’arte ispirata è perduta, aveva scritto Arthur Rimbaud: «musica e rime sono giochi, sollazzi»[9]; si è perduta in vari movimenti del secolo passato, alcuni chiusi nel loro poiein funzionale e pragmatico, al servizio di ideologie demagogiche, totalitarie e infine consumistiche; in altri che hanno trasformato l’arte in mortuaria contestazione d’avanguardia nichilista; e ancora in aridi calcoli concettuali, tanto che Schonberg ha scritto: «è errato credere che sia possibile ottenere l’arte per calcolo […]. La creazione artistica si svolge a livello un po’ più alto, che diamine!»[10]. Ognuno è in grado di associare queste posizioni a specifiche correnti novecentesche, che oggi si prolungano stancamente in messinscene modaiole, luminarie da lunapark, cascami che peggiorano i movimenti d’origine, di per sé già insufficienti.
L’epoca d’incartatori di cioccolatini sta finendo. Svegliamoci, il Novecento è alle nostre spalle. Di esso gettiamo tra i rifiuti della Geenna gli spaventosi orrori, le guerre e gli stermini e invece assumiamone le grandi conquiste scientifiche, tecniche, sociali. Facciamole evolvere a partire dall’importante Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ma passando dall’astratta dottrina alle persone reali, proiettandola – con le parole di Mauro Ceruti –, verso «l’orizzonte di un nuovo umanesimo concreto, che riconosca l’unità di tutto ciò che è umano nella sua diversità»[11].
In questo caos planetario – arti comprese – silenziosamente cresce uno sguardo visionario inedito, verso una grande metamorfosi. Grosso modo dagli ultimi due o tre secoli l’arte, in alcuni protagonisti, ha compiuto una svolta radicale, abbandonando la poetica della verosimiglianza aristotelica, o anche della natura meramente imitativa delle arti, criticate fortemente da Platone nel decimo libro della Repubblica. Questi protagonisti hanno invece vissuto l’arte come proveniente da una fonte che Platone nel Fedone (244a) definisce divina mania.
Niente a che vedere con l’arte degli alienati; né con l’orrore dell’arte contemporanea, per dirla con Baj e Virilio[12]. Una follia dello Spirito, piuttosto, un vento d’eros e agàpe che aspira alla bellezza di una verità che supera i limiti di una ragione come freddo calcolo logico.
Pavel Florenskij per dire “verità” usa il termine istina, che rimanda al verbo “essere” (est, es) e al sanscrito (as), che anticamente significavano “respirare”. Verità non riducibile alla dimensione logico-razionale. Una vivente verità cui, in differenti modi, anelavano William Blake,Hölderlin, Rimbaud, Turner, Trakl, van Gogh, Gauguin, Nietzsche, Kirchner, Majakovskij, Campana… Artisti e pensatori che si sono sentiti soffocare nell’astrazione e scissione dell’essere umano diffusasi a partire da Cartesio la cui filosofia, osserva Ceruti, «esplicita in maniera paradigmatica alcune assunzioni che attraversano l’intera storia del pensiero moderno occidentale. Di tal genere sono: la separazione fra corpo e mente […]; una concezione astorica della ragione e un’opposizione più o meno esplicita fra natura e storia […], fra razionale e irrazionale, fra sapiens e demens, fra normale e patologico, fra problemi “veri” e “pseudo”-problemi, fra scienza e metafisica…»[13].
Io è un altro, «Je est un autre», asserisce ancora Rimbaud. «Per me è evidente: assisto allo schiudersi del mio pensiero». L’Io non pensa, è pensato, ascolta un pensero che fiorisce da una fonte altra, per raggiungere l’ignoto, da esprimere in una lingua nuova che sia «anima per l’anima, riassumendo tutto, profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia il pensiero e tira»[14]. L’io non è un solitario e isolato dominatore, è relazione ab origine.
Arte, scienza e tecnologia (compresa quella della così detta intelligenza artificiale) resteranno nella disastrosa chiusura di un fare puramente pragmatico-finanziario? O potranno unirsi in una sorta di spirituale entanglement quantistico?
Symphonalis est anima, dice Hildegard von Bingen. Anche l’arte unisce molteplici livelli, e pure la scienza: il neuroscienziato portoghese Antonio Damasio sostiene che la vita e la coscienza sono un grandioso brano sinfonico[15].
Non intendo per Spirito l’idea romantica né la trascendenza dell’immortalità dogmatica o scientifica. Poesia, musica, narrativa, pittura, scultura, cinema. teatro, opere ibride tecnologiche, possono essere lo schermo translucido florenskijano che non elude il vincolo e il senso della realtà (come in Kandinskij), ma si pone quale confine fra tale realtà materiale e l’Ineffabile dello Spirito; un confine-schermo che non avverto come taglio netto ma, riporta Tagliagambe, come mezzo di coesistenza e collegamento «tra il linguaggio e il visibile (e l’invisibile che lo anima e sostiene), tra il linguaggio e il conoscibile (e l’inconoscibile che supera per estensione, indefinitamente, il conoscibile), tra il linguaggio e le forme che sono i modi attraverso cui il linguaggio conosce se stesso. Attraverso cui l’uomo conosce se stesso. Domande ineludibili. Domande che cercano una forma, alcune forme, per attingere alla luce»[16]. (…)
[1] Già Soprintendente archivistico e bibliografico della Toscana.
[2] http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/2013/08/22/news/gilles_lipovetsky_ormai_siamo_tutti_consumatori_estetici-65148910/
[3] Anselm Kiefer. Angeli caduti, Palazzo Strozzi – Firenze (22 marzo – 21 luglio 2024).
[4] Marc Fumaroli, Parigi – New York e ritorno. Viaggio nelle arti e nelle immagini, Adelphi, Milano 2011, p. 716. Il virgolettato all’interno del testo di Fumaroli è una citazione da Lipovetsky e Serroy.
[5] Molto diverso è il pensiero di molti specialisti di discipline scientifiche, umanistiche e dei mondi artistici: Murray Gell-Mann, Iosif Brodskij, Enzo Tiezzi, Ilya Prigogine, Luigi Zoja…, che ritengono cultura, estetica e bellezza essenziali dal punto di vista etico, epistemologico, artistico, della stessa salute psichica. Secondo James Hillman il problema estetico «non è affatto mero estetismo disinteressato; è la nostra stessa sopravvivenza» (L’anima del mondo e il pensiero del cuore).
[6] https://forbes.it/2024/01/15/oxfam-1-piu-ricco-possiede-il-43-della-ricchezza-totale-aumentano-i-miliardari/
Oxfam è una confederazione internazionale di organizzazioni non profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale. I dati sono tratti dall’ultimo report Oxfam, pubblicato come di consueto in occasione del forum economico mondiale di Davos. La dichiarazione finale qui riportata è di Aleema Shivji, amministratore delegato ad interim di Oxfam.
[7] Goethe, Faust, Giulio Einaudi editore, Torino 1982, p. 285-86.
[8] Silvano Tagliagambe, citazione tratta da un manoscritto di prossima pubblicazione che ho avuto direttamente dall’autore.
[9] Nella famosa “lettera del veggente”, in A. Rimbaud, Opere, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1975, ristampa 2006.
[10] Arnaold Schonberg, Manuale di armonia, Il Saggiatore, Milano 1978, p. 360–361.
[11] M. Ceruti, Edizioni Qiqajon – Comunità di Bose, Magnano (Bi) 2020, p. 91.
[12] Enrico Baj e Paul Virilio, Discorso sull’orrore dell’arte, Elèuthera, Milano 2002.
[13] M. Ceruti, La fine dell’onniscienza, Edizioni Studium, Roma 2014, p. 36 e 37.
[14] Arthur Rimbaud, “lettera del veggente” in Opere, op. cit.,
[15] Antonio Damasio, Il sé viene alla mente, Adelphi, Milano 2012.
[16] Silvano Tagliagambe, La costruzione del mondo intermedio, in Pluriversi. Riflessioni e diffrazioni da un’esperienza espositiva (a cura di Marcello Aitiani e Luisa Puddu), Aracne, Roma 2022, p. 135.
La foto di copertina è di ArtPower da Pixabay
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