Bologna 2 agosto 1980, ore 10.25

“Quel” sabato di tanti, tantissimi anni fa

di Marinella De Simone

Il 2 agosto 1980, alle ore 10,25, una bomba esplose nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna.
Lo scoppio fu violentissimo, provocò il crollo delle strutture sovrastanti le sale d’aspetto di prima e seconda classe dove si trovavano gli uffici dell’azienda di ristorazione Cigar e di circa 30 metri di pensilina. L’esplosione investì anche il treno Ancona-Chiasso in sosta al primo binario.
Il soffio arroventato prodotto da una miscela di tritolo e T4 tranciò i destini di persone provenienti da 50 città diverse italiane e straniere.
Il bilancio finale fu di 85 morti e 200 feriti.
La violenza colpì alla cieca cancellando a casaccio vite, sogni, speranze.

(Associazione tra i Familiari delle Vittime della Strage della Stazione di Bologna del 2 Agosto 1980)

 

Questa mattina, appena svegliata, il mio pensiero è andato lì. Ancora un altro 2 agosto, ancora un altro anno da allora, da “quel” sabato 2 agosto di tanti, tantissimi anni fa. E ogni volta mi chiedo per quanti quella data non significhi più nulla, solo un giorno sul calendario come tutti gli altri. Eppure, una ferita è ancora aperta dentro tanti di noi, dentro la memoria collettiva di una città, come il muro spaccato nella sala di attesa di seconda classe della stazione di Bologna, e continua a mantenerne vivo il dolore.

Quel giorno avevo da poco compiuto 20 anni e mi ero alzata molto presto per andare a cercare lavoro a Parma, per essere all’ufficio di collocamento appena apriva e presentare domanda come bracciante agricola per la campagna dei pomodori, dove mi avrebbero forse chiamato settimana per settimana, se ci fosse stato posto. Erano quelli i lavori che si facevano d’estate per potersi mantenere agli studi durante l’anno, e i soldi che cercavo di guadagnare mi sarebbero dovuti servire per iscrivermi all’università di Bologna per studiare filosofia e storia orientale; allora non c’erano immigrati, solo tanti ragazzi e ragazze come me, che si mettevano in fila per ore per iscriversi nelle liste e aspettare forse una chiamata dall’ufficio per un lavoro temporaneo in campagna o allo zuccherificio.

Avevo perso per un soffio il treno per tornare a Bologna e così presi al volo una corriera che mi avrebbe riportato a casa; in quei giorni abitavo in casa di amici, in una traversa di via Amendola, proprio dietro la stazione di Bologna. Quando passammo sul ponte della stazione con la corriera, guardai che ora fosse: l’orologio del ponte era indietro di 3 o 4 minuti, segnava la 10.25 mentre erano quasi le 10.30.

Strano. Su quel ponte ero passata per anni ogni giorno, mentre andavo e tornavo dalle scuole superiori, ed era per me un’abitudine regolarmi con l’ora segnata dall’orologio della stazione. E mai quel grande orologio era stato in ritardo anche di un solo minuto.

Così feci anche quel giorno, e con stupore mi accorsi che qualcosa non stava andando come al solito.

Quando scesi all’autostazione – situata a poche centinaia di metri dalla ferrovia – e mi avvicinai a piedi alla stazione per tornare a casa, cominciai a rendermi conto che qualcosa di grave doveva essere successo; c’erano vetri rotti dappertutto, le vetrine dei negozi in frantumi, tante persone sedute a terra in silenzio con lo sguardo smarrito o che piangevano sommessamente. Uno strano silenzio, come se il tempo si fosse fermato e non volesse più andare avanti.

Arrivai davanti alla stazione ed era il caos. Fumo, urla, l’ala sinistra della stazione crollata. Non erano ancora arrivate né ambulanze, né polizia, un autobus che faceva capolinea davanti alla stazione veniva usato da chi si trovava lì per caricare il più in fretta possibile i corpi delle persone, non sapevo se ferite o morte.

Non mi sono avvicinata. Sono rimasta davanti alla stazione per cercare di capire perché. Molte altre persone erano lì, ferme come me, per cercare di capire perché. Non bastava dire “è stato uno scoppio”. Molti hanno pensato ad un attentato, ma quasi c’era il timore di dirlo. “Forse è scoppiata una caldaia, non può essere una bomba”. Davanti a tanto dolore la mente si rifiuta di pensare che qualcuno lo abbia voluto, pianificato, organizzato.

Tutta la giornata è stato un ripetere alla televisione che probabilmente si trattava dello scoppio di una caldaia, ma io ero sempre più certa che si trattasse di un attentato. C’era già stato l’attentato all’Italicus – il treno che faceva la tratta tra Bologna e Firenze – pochi anni prima, sempre vicino Bologna, sempre nei giorni di massima affluenza sui treni per l’esodo estivo. Questo era il primo sabato di agosto, la stazione era strapiena, ed era la città di Bologna, simbolo del movimento studentesco del ’77 e della sinistra. Coincidenze troppo strane per essere fortuite.

Quel giorno è morta per sempre una parte di me. Niente più superficialità, niente più ingenuità, niente più adolescenza. Quel giorno ho capito cosa significa essere umani, e ho sentito la tristezza profonda di farne parte. Ho imparato a guardare oltre le apparenze e le facili risposte, per cercare di capire di più, di vedere ciò che ancora non è palese, di rinunciare a facili semplificazioni.

A 20 anni, improvvisamente e brutalmente, ho visto con i miei occhi e sentito con il mio corpo la radicalità della violenza umana, che non consente sconti, né distinzioni, né ragionamenti, né sentimenti. Una violenza che azzera tutto, toglie tutto. Ho capito l’inutilità di cercare spiegazioni, giustificazioni, sequenze logiche di ragionamenti teorici. Ho cominciato a cercare di capire invece come, dalla rabbia e dal dolore, potesse lentamente ma caparbiamente sorgere il bisogno di comprendere le responsabilità di chi, consapevolmente e scientemente, avvalorava tutto questo.

Di ciò che fino a pochi minuti prima erano persone – allegre, distratte, accaldate, vocianti, cariche di valigie e pacchi – ognuna con la propria quotidianità, con il proprio viaggio da fare, con gli amici o i famigliari da incontrare, rimanevano solo parti, spesso indistinte e irriconoscibili. E tutto questo è stato desiderato, progettato, eseguito da altre persone con il solo scopo di fare del male non solo al corpo ma anche, e soprattutto, alla mente di tutte le persone, e non solo di quelle direttamente colpite. Di farle sentire sole, spaventate, insicure, confuse, per poterle meglio governare, addomesticare, silenziare. Un attacco profondo alla memoria collettiva di una città, Bologna.

Sono passati più di quarant’anni da quel 2 agosto del 1980. Eppure, quell’orologio fermo alle 10,25 – divenuto il simbolo della strage di Bologna – è rimasto nel cuore di tante, tantissime persone, come se il tempo da allora si fosse davvero fermato per sempre.

Da quel giorno Bologna ha smesso di essere la “mia” città, la città in cui ero nata e nella quale – nonostante le manifestazioni, i cortei spesso violenti e il periodo cupo delle Brigate Rosse – ancora sentivo di potermi muovere con leggerezza e giocosità, tra amici, sogni, desideri.

Non era più la mia casa, e mai più avrei trovato una nuova casa altrove. Quel giorno è morta una parte di Bologna, e tante persone sono morte insieme a lei.

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