Cacciatori nella neve
I riti della comunità
di Giuseppe Zollo
Quando avverto sulla pelle il gelo dell’inverno mi ritorna in mente un dipinto di Brueghel il Vecchio del 1565, Cacciatori nella neve.
Una gelida giornata invernale. Colori spenti, densi, bruni, un verde-bluastro livido, la luce abbagliante della neve. Una gazza infreddolita su rami spogli. Tre cacciatori che rientrano nel villaggio col magro bottino di una volpe.
Ma la morsa del freddo non interrompe la vita della comunità. Sulla sinistra del dipinto una famiglia di locandieri è alle prese con l’uccisione del maiale. La paglia avvampa per rimuovere le setole della bestia morta: è la strinatura mediante bruciatura. Dalle mie parti, nel Sannio, si fa in modo diverso, con l’acqua bollente. È il rito di gennaio di un mondo contadino.
Giù, in fondo, nel paese la ruota del mulino è bloccata dal ghiaccio, segno che i ritmi della vita sono rallentati dal clima gelido. Nonostante tutto, due bambine giocano con una slitta sul fiume ghiacciato, sul ponte una donna trasporta una fascina di legna; più lontano, due stagni ghiacciati si trasformano nella piazza dove la comunità si ritrova a pescare, giocare, e chiacchierare.
Il dipinto mostra una collettività che, sfidando i rigori dell’inverno, cerca di mantenere in vita i riti, le relazioni sociali, le abitudini, i giochi, i ritmi della vita comune. I tre cacciatori tornano al villaggio perché è lì che prende forma la loro identità, nell’appartenenza a una comunità, a una storia comune, a una speranza condivisa, a un luogo, a un tempo, a un mondo. Ricordiamoci che Ulisse rinuncia all’immortalità che Calipso gli offre per rientrare nella sua Itaca. Dante, nei suoi vent’anni di esilio, si strugge per non poter rientrare nella sua Firenze. Il perché è chiaro: è lì, in quei luoghi perduti, nelle abitudini di quella socialità, che è custodita la loro identità. Al di fuori di quegli spazi, al di fuori da quei ritmi, essi sono solo vagabondi, e i giorni sono solo foglie d’autunno che si levano “l’una appresso dell’altra” (Inf. III 113).
Dimentichiamo troppo spesso che le azioni sociali, al di là della funzione performativa (fare qualcosa con un fine pratico), hanno una dimensione simbolica, e dunque hanno un valore in sé: la messa domenicale, la cena con gli amici, la movida il sabato sera, la partita di pallone, l’aperitivo. I riti sociali servono a riconoscersi dentro un mondo che “viene liberato dalla contingenza e ottiene un che di permanente”1, trasformando lo spazio anonimo in casa propria, e il tempo che ci logora in un tempo che ci costruisce. Saint-Exupéry descrive i riti come appuntamenti, che, nella loro ripetizione, trasformano il tempo estraneo, freddo e lineare, in un ritmo interiore, intimo, di natura ciclica:
E i riti sono nel tempo quello che la casa è nello spazio. Perché è bene che il tempo che passa non dia apparentemente l’impressione di logorarci e disperderci come una manciata di sabbia, ma di perfezionarci. È bene che il tempo sia una costruzione. In tal modo posso procedere d’onomastico in onomastico, di compleanno in compleanno, di vendemmia in vendemmia, così come da bambino camminavo dalla camera di consiglio alla camera silenziosa, fra le spesse mura del palazzo di mio padre, nel quale tutti i passi avevano un senso.
(Antoine de Saint-Exupéry (2017), Cittadella. Versione Integrale, Cusano Milanino, AGA)
Il villaggio di Brueghel, nel mantenere in vita i riti, i giochi e le abitudini, lotta contro gli elementi ambientali che tentano di distruggere l’identità collettiva. I riti sono costruttori di senso a cui non si può rinunciare.
Ma cosa accade quando una catastrofe planetaria interrompe il ciclo vitale dei riti collettivi? Dopo due anni di logorio fisico e psichico, causato da una pandemia che ha sospeso molti dei nostri riti sociali, avverto l’affiorare di una inquietudine diffusa, che si condensa in alcune domande: come raccattare l’identità collettiva che la pandemia ha disperso? Fino a che punto ne usciremo trasformati? In meglio o in peggio?
Siamo come i cacciatori nella neve. Dobbiamo ritornate al villaggio. Lo troveremo trasformato? E come siamo cambiati noi?
1 Byung-Chul Han (2021), La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, Milano, Nottetempo.
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