Calcolare l'umano
Sarà la complessità relazionale l’ultima barriera capace di preservare la nostra umanità
di Giuseppe Zollo
Il numero per millenni ha avuto due vite parallele. La prima vita, quella dotta, è roba da intellettuali. Ha origine nei circoli pitagorici della Grecia Classica, si sviluppa nel Medioevo ed è ancora presente all’alba del mondo moderno, allorché Keplero (siamo nel 1619) cerca di spiegare l’armonia del mondo coi rapporti musicali e i solidi platonici.
L’idea di questi intellettuali era che numero fosse la chiave per comprendere la struttura del cosmo. Una conoscenza accessibile solo alle menti elette in grado di leggere le sottili e molteplici corrispondenze tra il numero e il creato. Dante, che fa parte di questa schiera, afferma nel Convivio che il numero è infinito, cioè che ogni numero concentra in sé un insieme infinito di significati. Un esempio è il numero nove, che Dante collega a Beatrice. Il poeta motiva l’associazione col fatto che ha incontrato Beatrice all’età di nove e di diciotto anni (9+9=18). Su questa esile base Dante costruisce una architettura di significati, associando Beatrice ai nove cieli1, alla Trinità (3×3=9), e, dopo vari – per noi, astrusi – ragionamenti, perviene alla conclusione che Beatrice gli è stata inviata da Dio per condurlo alla salvezza.
La seconda vita del numero è quella pratica. Nasce dalla necessità di tener conto delle quantità di beni posseduti e scambiati, per rispondere a domande del tipo: le pecore che tornano dal pascolo sono tutte, o ne manca qualcuna? Se ogni pecora vale due pezze di stoffa, quante pecore devo cedere per avere otto pezze? Nel Medioevo, ai tempi di Dante, i testi di matematica per i giovani che si preparavano all’arte della mercatura erano una collezione di domande di questo tipo, da risolvere con l’aiuto del maestro. Un apprendimento irto di difficoltà. Anche gli esercizi più elementari risultavano difficili dato che ai tempi di Dante si calcolava senza avere a disposizione le cifre indo-arabe da 1 a 9, senza conoscere lo zero e la notazione posizionale, e senza i segni per le quattro operazioni. Per fare i calcoli si utilizzava uno strumento antichissimo, già noto a greci, romani e cinesi: l’abaco, una tavoletta su cui si muovevano palline disposte su file parallele. Le scuole di matematica si chiamavano, infatti, scuole d’abaco2.
Bisogna attendere la rivoluzione scientifica del XVII secolo e Galileo affinché si affermi l’idea che il calcolo non serve solo a scopi pratici, ma anche per conoscere le leggi della natura. L’intuizione geniale di Galileo è che i numeri possono essere ottenuti direttamente dalla natura mediante la misura dei fenomeni naturali. Quando Galileo fa cadere una pallina lungo un piano inclinato, e misura il tempo che la pallina impiega per arrivare in fondo, compie una operazione rivoluzionaria. Al contrario di Dante, che associa arbitrariamente il numero nove a Beatrice, Galileo ‘costringe’ la natura (la pallina che cade) a fornire un numero. Con la misura, l’esperienza diviene numero; col numero, la conoscenza diviene calcolo; col calcolo, la conoscenza diviene equazione che descrive una legge di natura. Misure ed equazioni consentono un grado di controllo della realtà materiale estremamente più potente di una descrizione verbale, e diventa possibile costruire manufatti e macchine sempre più complesse, la cui funzionalità ed efficacia è assicurata dalla descrizione numerica e dal calcolo.
Il resto della storia la conosciamo tutti, dato che il mondo che abitiamo ha origine da queste premesse. La macchina muove alla conquista del mondo. Trasforma il mondo in una realtà artificiale, inseguendo l’utopia di un ambiente perfettamente idoneo all’Homo Sapiens, privo degli imprevisti e dei pericoli di una natura autonoma dall’uomo. Il risultato è che la natura di cui godiamo l’esperienza non è quasi mai una natura ‘intatta’. È una realtà edulcorata e antropizzata: le montagne hanno i sentieri segnati, le spiagge sono controllate e ripulite, la campagna è coltivata. D’altra parte, isolati in un bosco ‘intatto’, saremmo paralizzati dalla paura; in una giungla non sopravvivremmo che qualche giorno. La natura intatta ci è estranea e, nella maggior parte di casi, ostile. Quando si manifesta alla nostra coscienza lo fa col terrore della catastrofe (eruzioni, alluvioni, terremoti, epidemie, ecc.) o con lo stupore del meraviglioso.
All’inizio del ‘900 Leger con i suoi dipinti dà forma visibile ad una visione da incubo: un mondo in cui l’artificiale prende possesso dell’ultimo scampolo di natura che sottraeva al suo dominio, la natura umana, e trasforma l’uomo in componente del mondo meccanico, macchina in un mondo di macchine. Una profezia che oggi sembra avverarsi con una sostanziale differenza. Il mondo artificiale non è fatto di lamiere, tubi e ruote dentate, ma ha la forma astratta e immateriale del dato e dell’algoritmo.
Il dato è l’ultima metamorfosi del numero. La misura, che i mercanti utilizzavano per propri traffici, e che Galileo riservava all’indagine scientifica, oggi è una attività capillare e continua, realizzata da innumerevoli sensori e sistemi digitali che monitorano e misurano ogni nostra attività nel mondo fisico e virtuale. Ogni evento produce una lista di dati. Miliardi di dati al secondo che vanno a popolare l’universo digitale.
Nel mondo digitale di Google e di Amazon io sono una lista di dati che continuamente si modifica man mano che vivo. Quella lista è il mio avatar, il mio sosia, il mio gemello. Vivo in un mondo dove specchi virtuali riflettono all’infinito la mia immagine, in una scintillante esperienza narcisistica, come nella stanza allestita dall’artista Lucas Samaras nel 1966. La differenza con la stanza di Samaras è che gli specchi non sono fisici, ma un’algebra astratta di numeri, una seducente gabbia computazionale che mi incatena ai miei desideri non con la violenza, ma dolcemente, con sommessi consigli e piccole spintarelle.
C’è una via d’uscita? C’è qualcosa di noi umani capace di sottrarsi alla potenza computazionale? Federico Cabitza, in un intervento alle Martini Lecture del 2021, usa il termine “androritmo”, per indicare “tutto quello che possiamo definire irriducibile alla conversione algoritmica”3. Per Cabitza l’androritmo è un insieme di aspetti elusivi dell’umano quali il desiderio di riservatezza, il piacere dell’imprevisto, il rifugio nell’ansia, nel dubbio e nel rifiuto, il diritto all’incoerenza, all’ambiguità e all’imprecisione, il bisogno dell’ineffabile, dell’inesprimibile e del silenzio.
Questi aspetti così evanescenti e contradditori dell’umano non appartengono oggi al dominio del calcolo. Ma cosa impedisce che domani algoritmi molto più sofisticati non siano in grado di simularli? Forse, una risposta ci viene dal pensiero complesso. Si chiama emergence, temine con cui si indicano le proprietà inattese, non deducibili dalle premesse, dei sistemi complessi. Come la vita, che non è deducibile dalla tavola periodica degli elementi. O l’amore, che non è deducibile dalla chimica delle cellule. O la felicità, il dolore, la bellezza, la coscienza. Sono qualità che nascono dell’intrico di relazioni che ognuno di noi stabilisce col proprio corpo, con gli altri, con la natura e col mondo. Credo proprio che sarà la complessità relazionale l’ultima barriera capace di preservare la nostra umanità. Il motivo è semplice: è impossibile prevedere col calcolo quale combinazione della complessità relazione produrrà una proprietà emergente come l’amore. È una impossibilità materiale, che nasce dall’esplosione combinatoria delle migliaia di relazioni in gioco. Per avere un’idea di questa impossibilità è sufficiente pensare alla difficoltà di esplorare tutte le sequenze di un mazzo di 52 carte per trovare quella che ci interessa. Le sequenze totali di 52 carte sono un numero impossibile da pronunciare: 8 seguito da 67 zero. Anche con una velocità di analisi di un miliardo di sequenze al secondo, non basta l’età dell’universo per arrivare a esplorare la metà delle sequenze4.
Dunque, è la complessità delle relazioni che stabiliamo con gli altri, con le cose, col mondo, a preservare la nostra umanità. È da questa complessità che nascono le proprietà emergenti che ci fanno umani. Il mio auspicio è che possiamo continuare ad alimentarla, resistendo alla seduzione di una vita semplificata dalle macchine.
Note
1 I nove cieli di Dante sono: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Giove, Saturno, Stelle Fisse, Primo Mobile.
2 Le cifre indo-arabe e la notazione posizionale con l’uso della zero furono introdotte nell’Occidente dal matematico pisano Leonardo Fibonacci, che pubblicò la nuova rivoluzionaria matematica appresa dagli arabi nel suo libro Liber Abaci nel 1202. La nuova matematica tarda ad affermarsi: un secolo dopo, ai tempi di Dante, il calcolo con l’abaco era nettamente prevalente.
3 Federico Cabitza, “Deus in machina? L’uso umano delle nuove macchine, tra dipendenza e responsabilità”, in Luciano Floridi e Federico Cabitza, Intelligenza Artificiale. L’uso delle nuove macchine, Milano, Bompiani, 2021, pp. 9-111. Le citazioni sono a pp. 54-55. Il neologismo “androritmo” è di Gerd Lombard in Tecnologia vs. umanità. Lo scontro prossimo venturo, Milano, Egea, 2019.
4 L’età dell’universo è 13,8 miliardi di anni, pari a 4,3 x 1017 secondi. Con un miliardo di mischiate al secondo si arriverebbe a 4,3 x 1026 mischiate, ben lontani dalla possibilità di esplorare tutte le possibili sequenze di 52 carte, che è pari a 8, 06 x 1067.
La foto di copertina è di Tung-Nguyen da Pixabay
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