Disconnessione
Veloci solo in apparenza, siamo mortalmente lenti
di Marinella De Simone
Si considerano inganni e illusioni come le più solide delle verità, mentre la realtà resta favolosa. Se gli uomini osservassero con continuità soltanto le realtà, senza concedersi illusioni, la vita sarebbe come una fiaba e una storia delle Mille e una notte, a paragone. Se rispettassimo solo ciò che è inevitabile e ha diritto di esserlo, le strade risuonerebbero di musica e poesia. (…) Chiudendo gli occhi, assopendoci e consentendo all’inganno delle apparenze, gli uomini stabiliscono e confermano ovunque una vita quotidiana fatta di routine e abitudine, costruita sempre su fondamenta puramente illusorie.
(Henry David Thoreau, Walden)
Come non accorgersi dei cambiamenti che stanno avvenendo intorno a noi, mentre continuiamo, con indifferenza, a vivere la nostra vita di tutti i giorni? Come non accorgersi del cumularsi degli effetti delle nostre azioni individuali, che stanno trasformando collettivamente il contesto in cui viviamo in qualcosa da cui la vita fugge?
Abitiamo in ambienti sempre più rumorosi, sporchi, inquinati. Possiamo tenere le nostre piccole case pulite e piacevolmente arredate, vestirci con abiti e scarpe nuove e curare il nostro aspetto, eppure, là fuori, la distruzione avanza.
Difficile continuare a far finta di nulla. Basta respirare l’aria per strada per sentire il fetore delle nostre auto. Basta camminare per le vie delle città per ritrovarsi con gli occhi puntati a terra, attenti a dove mettiamo i piedi per non calpestare la sporcizia che abbiamo lasciato.
È una disconnessione profonda tra noi stessi – e noi stessi. Perché siamo sempre noi: io, tu, lei, lui, voi. Serve a poco credere che ciò che facciamo non riguardi gli altri, e viceversa.
Sono io che bevo dalla bottiglietta di plastica, pur sapendo che, quando la butterò via, non si distruggerà ma rimarrà lì per anni e anni e che inquinerà la terra, i fiumi e i mari e che, un giorno, un pesce o un uccello ne ingoierà alcuni frammenti che ne causeranno la morte.
Sei tu che mangi carne quasi tutti i giorni, pur sapendo che proviene da allevamenti intensivi in cui vengono utilizzati in dosi massicce antibiotici, ormoni e altri farmaci che danneggiano la loro salute e la tua, e che finiscono nella terra, nei fiumi e nei mari, inquinandoli.
È lei che usa l’automobile tutti i giorni per prendere i figli a scuola, per portarli a basket, a inglese, a catechismo, pur sapendo che sta usando benzina che inquina, che sta facendo rumore con il clacson, e che è sempre più stressata dal traffico e dalla mancanza di parcheggi.
È lui che porta il cane la sera a passeggio e che non si ferma a raccoglierne gli escrementi, pur sapendo che è la strada vicino casa sua quella che il suo cane sta sporcando.
Siete voi che state mutilando gli alberi dei vostri giardini e delle strade delle vostre città, capitozzandoli barbaramente e trasformandoli in pali spelacchiati, pur sapendo che ne state causando la malattia e la morte, e che state togliendo a voi stessi la possibilità di respirare e di godere della bellezza della loro forma e della piacevolezza della loro ombra.
Siamo noi che stiamo facendo tutto questo a noi stessi, incuranti degli effetti delle nostre azioni quotidiane e di come ciascuna di esse si vada a cumulare a innumerevoli altre, stravolgendo l’ambiente in cui viviamo, appena fuori dalla nostra porta di casa.
Eppure, non stiamo facendo nulla per cambiare i nostri comportamenti quotidiani, le nostre piccole abitudini. Anziché cambiare i comportamenti che sono disfunzionali per noi stessi e per gli altri, li stiamo moltiplicando, freneticamente. Sembra anzi che la disconnessione si stia approfondendo sempre più, come se ognuno di noi non volesse vedere, sentire, odorare, toccare ciò che sta accadendo attorno a sé. Come sul Titanic, cerchiamo di divertirci ballando e conversando amabilmente, sebbene non possiamo dirci ignari del fatto che stiamo affondando, tutti insieme, spensieratamente – e sempre più velocemente.
Non è un problema di mancanza di scelte alternative, almeno per ora. Sappiamo che dipende da noi, dai nostri gesti quotidiani, dalle scelte piccole e grandi che compiamo ogni giorno e dai bisogni che riteniamo indispensabili per noi stessi: i vestiti che scegliamo di indossare, le scarpe che scegliamo di comprare, i cibi che scegliamo di mangiare, i mezzi di trasporto che scegliamo di utilizzare, il tempo che scegliamo di sprecare.
Non è nemmeno un problema di mancanza di conoscenza. Non possiamo dire che non sappiamo. Non abbiamo bisogno di una bambina di nome Greta che ci dica che “Il Re è nudo” per doverlo ammettere.
È invece un problema di mancanza di coscienza: coscienza individuale e coscienza collettiva.
La coscienza individuale riguarda ognuno di noi; richiede uno sguardo profondo in noi stessi: osservare chi siamo e chi vorremmo essere, con la nostra vulnerabilità e le nostre aspettative, con le nostre credenze e le nostre illusioni. Ma riguarda soprattutto il valore che diamo a ogni gesto che compiamo.
Ecco perché la disconnessione è così profonda: non diamo abbastanza valore ai nostri gesti. Non ci fermiamo a osservare gli effetti delle nostre azioni, considerandole irrilevanti. Non ci fermiamo a riflettere sugli effetti delle nostre non-azioni, considerandole inesistenti. Viviamo frettolosamente la nostra vita, senza accorgerci di noi stessi e di ciò che facciamo, nell’illusione che duri per sempre e che un giorno, forse, troveremo il tempo per farlo.
La coscienza collettiva richiede invece uno sguardo ampio: uno sguardo che si allarghi alla vastità di tutto ciò di cui facciamo parte e che, lasciando spazio all’amore verso ogni cosa che osserviamo, possiamo riconoscere essere anche dentro di noi. Siamo mortalmente lenti nell’accorgerci che siamo esseri tra gli altri esseri, in un contesto di tale bellezza da rimanere senza fiato, se solo riuscissimo a osservarci dall’alto, come in volo.
Ecco perché la disconnessione è così vasta: non diamo valore alla vita, perdendo la grandiosità di essere parte di un tutto meraviglioso, che stiamo distruggendo mentre distruggiamo noi stessi.
Come ricorda Thoreau in Walden, è necessario gridare agli altri con voce di tuono, ogni domenica mattina, prima che una nuova settimana cominci nella routine dei gesti consueti: “Fermatevi! Basta! Perché così veloci in apparenza, ma invece così mortalmente lenti?”
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