Indipendenza o interdipendenza?
Senza cura di sé non c’è possibilità di cura per l’altro
di Marinella De Simone
Il curare rimanda “all’anello ricorsivo” tra cura di sé, cura degli altri e cura del mondo e tra autonomia soggettiva e autonomia sociale. La preoccupazione costante per i mezzi necessari a conservare la vita, a farla fiorire e a rimarginarne le ferite non può condurre a una chiusura egoistica. Il nostro nascere inadatti alla vita, la nostra incompiutezza e “apertura” si accompagnano al carattere di esseri intimamente relazionali, a un “con-esserci”, che obbliga l’aver cura a qualificarsi non solo come cura di sé, ma anche come cura per gli altri e per il mondo. Senza cura di sé non c’è possibilità di cura per l’altro, così come il gesto etico di cura per l’altro è essenziale per trovare la propria umanità.
(Mauro Ceruti, Francesco Bellusci, Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, 2020)
Pensare in termini di indipendenza ha delle radici molto profonde in ognuno di noi, e spesso queste radici affondano nel bisogno storico di liberazione da gioghi molto pesanti: la liberazione di un popolo da un invasore straniero o da una dittatura, la liberazione da forme di schiavitù, la liberazione da obblighi e misure restrittive cui siamo stati sottoposti nella faticosa storia dell’umanità. Indipendenza e liberazione sono termini che acquisiscono senso e forza l’uno dall’altro e sono da considerarsi sacri nella nostra cultura: ed è giusto che sia così.
Eppure, oggi non è più possibile pensare solo in termini di indipendenza, perché una volta acquisita la libertà dai fattori che ci soffocano e ci limitano, occorre acquisire la libertà di agire, di pensare, di migliorare la nostra vita. Ma questi due tipi di libertà sono molto diversi tra loro. Mentre la “libertà da” – chiamata anche libertà negativa – è una forma di liberazione da forme coercitive, la “libertà di” – chiamata anche libertà positiva – è la libertà di realizzare sé stessi e il progetto della propria vita.
Amartya Sen1 – premio Nobel per l’economia – parla a questo proposito di “capabilities”, che noi traduciamo con “capacitazioni”, ovvero le capacità di realizzare il proprio potenziale come persona, lo sviluppo personale come possibilità effettiva riguardo al contesto in cui la persona è situata. Amartya Sen considera lo sviluppo come un processo di espansione delle libertà sostanziali di cui possono godere gli esseri umani: non solo la libertà dal rischio di contrarre malattie evitabili o di morire prematuramente, ma anche la libertà del dissenso, di partecipare alla vita politica, alla vita culturale, e così via. Non è quindi sufficiente godere dei diritti che permettono di essere liberi da privazioni così come di essere liberi di istruirsi e di partecipare alla vita politica e culturale del proprio paese: se nel contempo la realtà in cui ogni persona è inserita non consente che questo avvenga, limitando di fatto le libertà sostanziali delle persone e la loro capacitazione di vivere il tipo di vita a cui danno valore, non è possibile raggiungere la propria auto-realizzazione. Il concetto di “capabilities” è quindi un concetto sistemico, che collega e integra in modo sostanziale la persona nella situazione in cui è inserita e nel contesto di cui è parte.
L’auto-realizzazione non si realizza da soli, anche se la parola sembra indicare il contrario: spesso questo termine è associato ad immagini in cui vi è una persona, da sola, che medita in un luogo deserto o che ha raggiunto la cima di una vetta. Realizzare sé stessi diviene una sfida da affrontare superando le avversità – interiori ed esteriori – senza l’aiuto di altri, ma confidando solo sulle proprie potenzialità, indipendentemente da tutto e da tutti. E qui torna il legame tra libertà negativa e indipendenza, che ancora guida il nostro immaginario semplificando la realtà, nonostante essa sia estremamente più complessa.
Se da un lato viene dato per scontato che siamo tutti interconnessi – le cui evidenze sono sempre più numerose, dai social network alla crisi del 2008 per arrivare all’epidemia da Covid – e siamo pronti a considerarci nodi di diverse reti, dall’altro siamo poco consapevoli dell’interdipendenza che ne consegue. La vera questione è che continuiamo a rimanere concentrati sul singolo nodo – la singola persona, la singola organizzazione, il singolo paese – come se fossimo ancora in un’epoca in cui è la separazione a prevalere, e non la connessione.
La nostra auto-realizzazione – la nostra libertà di – non può passare che attraverso una forma di legame con gli altri. Non possiamo e non riusciamo a migliorare la nostra vita se non con gli altri e attraverso gli altri, in una visione collettiva e interdipendente che pone in secondo piano la nostra indipendenza.
In una visione separativa, ognuno è libero di essere e di fare ciò che vuole, purché non sia di danno ad altri. Vi è pertanto una responsabilità personale intesa come “accountability”, ovvero la capacità di dare conto di ciò che si è fatto qualora abbia arrecato danno a qualcuno. Come scrive Stefano Zamagni nel suo libro Responsabili. Come civilizzare il mercato2:
L’interpretazione tradizionale di responsabilità la identifica con il dare conto, rendere ragione (accountability) di ciò che un soggetto, autonomo e libero, produce o pone in essere. Tale nozione di responsabilità, sotto l’autorità di una filosofia del libero arbitrio e della causalità, postula dunque la capacità di un agente di essere causa dei suoi atti e in quanto tale di essere tenuto a “pagare” per le conseguenze negative che ne derivano.
Questo è il limite all’azione che ci impone ancora oggi il diritto, così come lo conosciamo nei paesi più avanzati come il nostro. È una visione individualistica, fondata sul presupposto che sia possibile risalire al “colpevole” per punirlo per le conseguenze derivanti dagli atti da lui compiuti, secondo una legge di causa-effetto lineare. Tuttavia, in una prospettiva di connessione e di interdipendenza come quella in cui siamo immersi oggi, non è più possibile seguire questo come unico criterio di valutazione della libertà personale e della responsabilità che consegue dalle proprie azioni.
In una visione sistemica e complessa, in cui non possiamo più pensare alle persone come individui separati né alle organizzazioni come entità separate, occorre mutare anche il concetto di responsabilità. Ogni nostra azione risente delle azioni degli altri, e il risultato che si ottiene – per quanto lo si cerchi di isolare nel tempo e nello spazio – è sempre un risultato parziale e monco, che non tiene conto del mutare del contesto in funzione delle azioni di ciascuno e del loro effetto cumulato. Il tempo, inesorabilmente, modifica inoltre le prospettive con cui possiamo valutare un’azione e gli effetti che produce. Inoltre, in un contesto di interdipendenza, in cui tutto è connesso con tutto, gli effetti delle azioni individuali – per quanto possiamo continuare a reputarle indipendenti – si cumulano e divengono azioni collettive, i cui effetti si riversano sugli altri e sull’ambiente più ampio di cui siamo parte, toccando – in un processo a catena – qualunque parte del pianeta.
Tutto questo non ci rende irresponsabili: muta invece il modo di sentirsi, ed essere reputati, responsabili di ciò che facciamo. O che non facciamo. La responsabilità diviene funzione delle domande che ci poniamo e a cui cerchiamo di rispondere: come posso prendermi cura degli altri esseri, non solo umani? Come posso prendermi cura della vita e del suo mantenimento? Come posso facilitare – invece di impedire – la realizzazione di una vita piena non solo di me stesso ma anche di tutto ciò che mi circonda? Non è più un criterio di imputabilità di una colpa commessa, né un criterio di render conto di ciò che si è fatto. Diviene un criterio che include anche il rispondere ad altri per ciò che non si è fatto, e che si sarebbe potuto fare. L’omissione dell’azione del prendersi cura – in un contesto di interdipendenza reciproca – assume la stessa importanza dell’azione che se ne fa carico.
Per la piena realizzazione di tutte le capacitazioni della persona, perché essa fiorisca e si auto-realizzi, occorre modificare alla radice il nostro sguardo sul mondo: non considerarlo più frazionato e autonomo, ma interdipendente e unitario. Non più essere responsabili solo per la piccola fetta di mondo in cui ognuno si sente totalmente libero evitando solo i comportamenti che possono creare danno ad altri, ma prendersi cura dei legami che ci costituiscono e che ci rendono quello che siamo.
1 Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, 2000.
2 Stefano Zamagni, Responsabili. Come civilizzare il mercato, Il Mulino, 2019.
La foto di copertina è di Beate Bachmann da Pixabay
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