La parola come manifestazione di sé
Occorre dare valore alla parola per dare valore al silenzio
di Marinella De Simone
“Se la parola non dice solo ciò che prima è pensato, se non va solo a rimorchio del pensiero, ma dice ciò che l’Essere è e dicendolo lo manifesta, allora poniamo le basi realmente al regno della libertà. L’Essere non è, né diventa, secondo le leggi del Pensare; l’Essere non ha motivo di camminare per le vie battute dal pensiero ma, essendo, crea il suo proprio cammino che il pensiero poi (‘a posteriori’) dovrà seguire. Né il destino dell’umanità, né quello della realtà sono prefissati o sono lo sviluppo di un’idea: sono lo sbocciare insospettato e insospettabile della Vita. (…) L’Essere non è il Pensare. Il Pensare è un’operazione secondaria. L’epifania prima dell’Essere è la parola.”
(Raimon Panikkar, Lo spirito della parola)
Quante volte ci capita di stare in silenzio invece di esprimere quello che vorremmo dire? Per convenienza, per fretta, a volte per paura, non diciamo ciò che pensiamo, o che sentiamo. La parola non è solo uno strumento per dire ciò che pensiamo. Spesso, anzi, è vero l’opposto. Il pensiero si forma attraverso la parola. Parola non detta, pensiero che non si è formato. È come se rinunciassimo a una parte di noi, non solo perché non ci si esprime, ma anche perché non ci diamo la possibilità di scoprire un nuovo pensiero, o di lasciare che un nuovo pensiero si formi attraverso le nostre parole.
Strano, no? Siamo abituati a credere che valga in assoluto il detto popolare: “Prima pensa, poi parla”. E se fosse vero (e possibile) anche il contrario, “Prima parla, poi pensa”? Certo, potremmo dire delle stupidaggini. Ma forse potremmo anche essere più creativi, soprattutto verso noi stessi, lasciandoci la possibilità di sbagliare. Minore perfezione, maggiore possibilità di creatività. Una creatività che non ha scopi utilitaristici, che non è finalizzata a ottenere qualcosa che si possa commercializzare, ma che riguarda il permesso che ci diamo di esprimerci. E il permesso che diamo a chi ci ascolta di poterci comprendere.
Non mi riferisco alle parole usate come chiacchiericcio, lamentela, o insulsaggine. Questo rappresenta l’uso banale della parola, la sua svalorizzazione. Mi riferisco alla parola autentica, quella che sgorga dentro di noi come una fonte e che blocchiamo per timore del giudizio. Giudizio che affidiamo agli altri, ai nostri potenziali uditori, ma che, in realtà, è solo il nostro giudizio interno. La nostra sentinella della perfezione. Nella nostra cultura lasciamo scorrere fiumi di parole che sono solo rumore – incluse le radio e le tv eternamente accese su programmi infarciti di banalità – e abbiamo tolto sempre più valore alle parole, temendo l’imbarazzante silenzio. Le parole che non abbiamo detto sono le parole autentiche a cui abbiamo rinunciato, spesso sostituendole con parole banali, parole che fanno solo un po’ di rumore. Forse, le parole che non abbiamo detto erano troppo dure per farle uscire e si sono fermate lì, nella nostra gola, non potendo così esserci di alcun aiuto. O forse erano troppo intime, così tenere e profonde da renderci vulnerabili nei confronti dell’altro.
Quante sono state le situazioni in cui, trovandoci in difficoltà, non siamo riusciti ad esprimere a parole quello che stavamo sentendo e abbiamo reagito con il silenzio a ciò che stava accadendo? Per paura o per debolezza, abbiamo preferito tacere trattenendo in noi le emozioni che stavano premendo per manifestarsi pienamente. Non abbiamo avuto fiducia nella possibilità che l’altro potesse capirci, temendo la sua aggressività o la sua incomprensione. Cosa sarebbe potuto accadere se invece avessimo trovato le parole per dire quello che stavamo provando?
Le parole che non abbiamo detto potevano essere un “no”, semplice e chiaro, netto e immediato. No alla prepotenza, no alla sopraffazione, no al ricatto, no alla debolezza dell’altro, no alla nostra debolezza. Le parole che non abbiamo detto potevano anche essere un “sì”: sì all’apertura, sì all’avvicinamento (all’altro, dell’altro), sì alla bellezza, sì all’amore, sì alla nostra vulnerabilità. Quante volte rinunciamo a dire un “sì”? Se la paura di dire un no autentico è diffusa, la paura di dire un sì autentico è una sorta di epidemia sociale. Sempre meno attenti all’altro, siamo sempre più distratti verso noi stessi, dimenticandoci che non dicendo un sì all’altro, non diciamo un sì a noi stessi.
Occorre dare valore alla parola per dare valore al silenzio. Diamo poca importanza alla parola, dimenticandoci la relazione costitutiva che essa rappresenta e che porta con sé. Ci dimentichiamo che la parola può essere, ed è innanzi tutto, manifestazione del proprio Essere (un essere con la E maiuscola), e della propria essenza, che trova materialità e corpo attraverso di essa.
Porre la parola a servizio del pensiero la subordina nel processo di razionalizzazione con cui giustifichiamo il nostro agire. Raccontiamo la nostra storia, e le parole che utilizziamo seguono le concatenazioni causali che creiamo nel cercare di dare un senso logico a ciò che abbiamo vissuto. La parola come mezzo del pensiero la rende strumento del passato, di ciò che già non è più. Mero strumento di descrizione. L’idea, l’astrazione in sé, diviene disincarnata, rendendo il corpo – e la parola che si esprime con il corpo e attraverso il corpo – un mero oggetto, sostituibile con un qualsiasi altro oggetto che possa raggiungere il medesimo scopo.
La parola è invece, e soprattutto, manifestazione di sé: attraverso di essa, ci lasciamo trascinare nella vita rendendoci partecipi di ciò che ci accade, dando voce alle nostre percezioni, sensazioni, emozioni. La parola poetica, la parola che crea (dal greco poiesis, che significa creazione, produzione) ha il potere di rendere manifesto ciò che, in chi la parla, ancora non è divenuto pensiero. È ancora corpo, capace di generare e di manifestarsi. La parola diviene così ciò che essa realmente è: manifestazione del presente, generatrice del futuro.
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