La Scuola, invece
Le domande di Alessandro Baricco
di Marinella De Simone
Educhiamo i giovani a una situazione che poi, nella vita vera, quasi non si dà: gestire una realtà che resta ferma. Risolvere problemi che non cambiano regole. Trovare significati che sopravvivono inalterati a generazioni di umani completamente differenti. Lo vedete il culto della permanenza, l’ambizione a fermare il mondo, il bisogno di fermezza? Lo riconoscete il ponte Morandi?
(Alessandro Baricco, Mai più, seconda puntata. Il Post, 17 marzo 2021)
In un precedente articolo ho cercato di affrontare con lo sguardo della complessità le domande che Baricco ci ha posto, poiché esse riguardano l’intelligenza che ancora domina le nostre istituzioni politiche e sociali e la sua palese incapacità ad affrontare le sfide che la vita ci sta ponendo di fronte, tra cui la pandemia. Alla domanda di Baricco se “Esiste un’altra intelligenza, più adatta alle sfide che ci aspettano?” ho risposto che sì, esiste, ed è l’intelligenza relazionale, l’intelligenza fondata sul pensiero complesso, sul comprendere quel “tra” che connette i pensieri, le persone, le organizzazioni, gli eventi. Edgar Morin1, in uno dei suoi testi più conosciuti, fa riferimento in questo senso a un’intelligenza che chiama ‘generale’: “L’educazione deve promuovere una “intelligenza generale” capace di riferirsi al complesso, al contesto in modo multidimensionale e al globale”.
Occorre questo tipo di intelligenza per comprendere e saper affrontare il mondo in cui viviamo. Un’intelligenza che connetta i saperi, invece di dividerli e compartimentarli; che sia trasversale, e non solo verticale. Che allarghi lo sguardo a ciò che sta accadendo nel qui e ora: dove ‘qui’ non sia solo il nostro, personalissimo contesto ma che includa contesti sempre più allargati e interconnessi; dove ‘ora’ non sia solo l’attimo che già sta sfuggendo sotto il nostro sguardo, ma la contemporaneità di più eventi a scale molto diverse. E che dai plurimi contesti interconnessi allarghi lo sguardo a ciò che si sta preparando ad accadere, immaginando non ‘il’ futuro, ma diversi futuri possibili. Un’intelligenza relazionale, appunto. In grado di pensare la complessità del vivente e di sentire l’interdipendenza dei fenomeni, di agire nel mutamento e di trarne insegnamento.
La scuola, invece
Invece di anticiparlo, la scuola insegue il cambiamento. Prepara, se riesce, a ciò che oggi è richiesto dal mercato del lavoro, come se gli studenti non dovessero impiegare poi anni per terminare gli studi e trovare finalmente un’occupazione, pronti a offrire delle conoscenze che saranno presto obsolete.
La scuola illude sé stessa, e così tutti i giovani che la frequentano, che il tempo sia fermo, che la realtà non stia già cambiando fuori dalle sue mura. Mi chiedo se sia un’illusione inconsapevole o se invece sia incapacità di immaginare strade diverse, modi diversi di educare i giovani.
La scuola riproduce sé stessa, è la prima a non mutare. Come può preparare i giovani al futuro se non è in grado di affrontare il proprio di futuro?
Preferisco parlare di Scuola con la S maiuscola, per indicare l’idea che abbiamo di essa. Non solo nel nostro Paese, ma a livello mondiale. Come afferma Martha Nussbaum2 in un suo testo del 2010:
“Ci troviamo nel bel mezzo di una crisi di proporzioni inedite e di portata globale (…). Mi riferisco a una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, come un cancro; una crisi destinata ad essere, in prospettiva, ben più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione. Sono in corso radicali cambiamenti riguardo a ciò che le società democratiche insegnano ai loro giovani, e su tali cambiamenti non si riflette abbastanza. Le nazioni sono sempre più attratte dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé (…)”.
Cosa accadrebbe se la scuola smettesse di correre dietro al mondo del lavoro? Se invece di istruire i giovani a divenire strumenti per le imprese – senza, tra l’altro, riuscirci così bene – li educasse a pensare, a scoprire le proprie capacità e le proprie aspirazioni? Perché ossessionare i giovani con il lavoro mentre ancora studiano? E se, mentre studiano, lasciassimo i giovani studiare, senza altri fini? E se lasciassimo che possano scoprire la propria di vocazione, senza soffocarla sul nascere? Gli studenti potrebbero scoprire il piacere di apprendere, per esempio. E potrebbero apprendere ad apprendere, in modo da poter continuare ad imparare anche quando saranno adulti e avranno un lavoro che, ‘imprevedibilmente’, potrebbe diventare superfluo.
Invece di sviluppare le capacità dei giovani, la scuola li prepara ad avere delle competenze. Le competenze servono al lavoro che si presume si dovrà fare una volta terminato il percorso scolastico; riguardano aspetti tecnici più o meno specialistici, da inserire in un contesto predefinito e immutato. Le competenze non sono vive, non si adattano alla realtà in mutamento; sono solo una lista da mettere nel proprio CV. Educando invece le persone allo sviluppo delle proprie capacità, le si prepara anche a modificare le proprie competenze, senza bisogno di correre dietro al cambiamento.
La scuola non dovrebbe più essere vista come una fornitrice di contenuti per creare competenze, ma come l’occasione fondamentale per lo sviluppo di capacità nelle persone considerate nella loro interezza: non solo la dimensione logica e riflessiva, ma anche quella emotiva e, non da ultimo, quella spirituale.
Anche le parole utilizzate non sono più appropriate alla realtà che stiamo vivendo: istruzione, programma, materia, manuale. Parole che riflettono molto bene il modo in cui, ancora oggi, si pensa la Scuola: senza immaginazione, senza libertà, senza creatività, senza curiosità. Una cultura prescrittiva, fatta di manuali, programmi da svolgere, istruzioni e materie. Un’immobilità di pensiero che si riflette nel modo in cui sono organizzati gli spazi in cui stare: spazi fatti di banchi e sedie pressoché inamovibili, così come immobili sono costretti a stare docenti e allievi, sia nel pensiero che nell’azione.
L’intelligenza è una capacità, non una competenza. Oltre tutto, è una capacità in azione, cioè è tale solo se è agita. Una capacità, diversamente da una competenza, non basta conoscerla, non basta portarla a mente; occorre praticarla, esercitarla ogni giorno. Perché ogni giorno è diverso dal precedente. La realtà è mutamento – per quanto le parole che usiamo per descriverla siano inadeguate e ci illudano che sia ferma – altrimenti non è reale. E per una realtà dinamica, fatta di intrecci, occorre un’intelligenza viva, che pensa per connessioni e agisce per interdipendenze. Un’intelligenza relazionale, appunto.
Alessandro Baricco ci chiede se abbiamo ragione di pretendere che questo tipo di intelligenza debba emergere in superficie nella gestione del mondo. Sì, abbiamo ragione di pretendere che emerga. E perché questo avvenga occorre darle spazio, non solo a livello istituzionale – come è necessario che sia – ma anche a livello locale. Nella mente di ciascuno, nella scuola di ognuno dei nostri figli, nel proprio ambiente di lavoro, nella propria organizzazione, nelle istituzioni di cui si è parte. Poi farà da sé.
Avevo terminato il precedente articolo con una domanda: “Ma chi, oggi, educa al pensare complesso? Chi apre le porte all’intelligenza relazionale?”. Trasformo questa domanda in un invito alle istituzioni preposte all’educazione dei giovani: è il momento di educare al pensare complesso, è ora di aprire le porte all’intelligenza relazionale. Chi è disposto a farlo?
1 Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore, 2001.
2 Martha C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, 2011
La foto di copertina è di Sasin Tipchai da Pixabay
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