L'impresa: bene comune per creare un mondo a misura d'uomo
I 17 obiettivi di sviluppo sostenibile: una nuova dichiarazione dei diritti umani
di Marco Ettore Tirelli
Gli scenari sociali, economici e ambientali che stiamo vivendo rendono necessario interrogarsi se non sulla validità del sistema economico capitalista, almeno sull’ideologia neoliberista che di tale sistema oggi ha preso il controllo. Quali sono le priorità che abbiamo scelto di perseguire con i nostri comportamenti individuali e organizzati? Quali le conseguenze degli stili di vita delle persone e delle imprese?
Se si osserva ciò che avviene oggi a livello globale, senza pregiudizi, appare abbastanza chiara l’esistenza di un apparente paradosso: da una parte infatti aumenta in tutto il mondo la sensibilità verso i temi di sostenibilità sociale e ambientale, ma dall’altra contemporaneamente gli indicatori che misurano tali ambiti di sostenibilità peggiorano continuamente e, in alcuni casi, drammaticamente.
Le cause di questa contraddizione sono diverse. Esistono temi, come per esempio il riscaldamento globale, in cui le conseguenze delle scelte (sbagliate) del passato e di quelle (giuste ancorché timide) di oggi hanno un’inerzia molto forte e quindi producono effetti a distanza di molti anni dal momento in cui vengono prese.
Ma è guardando ai comportamenti di persone e organizzazioni, più che ai temi, che appaiono evidenti le ragioni del peggioramento. Cinque sembrano le possibilità nelle quali possono rientrare le nostre azioni:
- mostriamo un forte disinteresse per le conseguenze dei nostri comportamenti e dei nostri stili di vita;
- mostriamo un interesse, ma si tratta solo di apparenza e non di sostanza. Creiamo una “maschera” di sostenibilità (sociale e ambientale) dietro la quale nascondiamo la nostra ritrosia a ogni mutamento;
- vorremmo un cambiamento, ma siamo inconsapevoli delle conseguenze dei nostri comportamenti (per esempio, le abitudini alimentari, le modalità di spostamento e, in generale, gli stili di vita);
- vorremmo un cambiamento, ma non siamo pronti a pagare il prezzo che il cambiamento richiede. Il risultato è che diciamo di volere e addirittura di praticare la sostenibilità, ma in realtà replichiamo logiche e modelli di comportamenti sempre uguali e non “sostenibili”;
- siamo convinti delle necessità di cambiare e lo facciamo con coerenza di cui siamo capaci.
Tra tutti i casi menzionati è chiaro che solo l’ultimo genera un vero cambiamento.
La “retorica del cambiamento” ovvero la distanza tra la parola dichiarata e l’azione effettiva accomuna i casi 2, 3 e 4, ma negli ultimi due si aggiunge una componente di autoassoluzione e appagamento che li rende particolarmente insidiosi: il comportamento negativo si perpetua, mentre la nostra coscienza è anestetizzata in modo da non ci dia eccessive frustrazioni.
Contro il rischio di una deriva retorica del cambiamento nel 2015 è stata approvata all’unanimità dall’Assemblea Generale delle Nazione Unite l’Agenda 2030 che rappresenta probabilmente il più importante documento dalla Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948.
Si tratta di un documento complesso, che individua 17 sfide (i cosiddetti Sustainable Development Goals – SDG), ma soprattutto definisce 169 traguardi misurabili, da raggiungere entro il 2030 per assicurare la prosperità futura della Terra e dei suoi abitanti.
Mentre gli SDG sono importanti, ma esprimono una valenza essenzialmente politica, già vista in molte altre dichiarazioni d’intenti, la vera forza dell’Agenda è proprio nei 169 traguardi misurabili che fissa. Ad esempio:
- il primo SGD prevede che entro il 2030 si debba “porre fine alla povertà in tutte le sue forme, ovunque”, ma è il traguardo quantitativo che definisce puntualmente il significato dell’obiettivo stabilendo che la percentuale della popolazione che vive con meno di $ 1,25 al giorno deve essere portata a zero;
- il terzo SDG dichiara “assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età”, ma è il traguardo quantitativo che prevede, tra le altre cose, la riduzione del tasso di mortalità materna globale a meno di 70 bambini per 100.000 nati vivi;
- Il decimo SDG recita “ridurre le disuguaglianze all’interno e fra le Nazioni”, ma è il traguardo quantitativo che ne specifica il significato chiarendo che vuol dire raggiungere e sostenere progressivamente la crescita del reddito del 40% per cento più povero della popolazione a un tasso superiore rispetto alla media nazionale.
L’estrema concretezza caratterizza dunque l’Agenda 2030, ma c’è un altro punto di forza rispetto a tutti gli altri trattati che l’hanno preceduta: essa infatti non impegna solo i Governi, ma si rivolge a ogni persona e organizzazione presente e futura. Soggetti del settore pubblico e di quello privato, aziende for profit e non profit, cittadini singoli e organizzati: ciascuno è chiamato a fare quello che può per contribuire a raggiungere gli obiettivi collettivi indicati dall’Agenda, senza delegare ad altri il suo compimento.
In tal senso le Nazioni Unite hanno chiesto a B Lab, organizzazione non profit che rilascia in tutto il mondo la certificazione B Corp®, di creare uno strumento attraverso il quale ogni organizzazione avesse la possibilità di definire obiettivi, misurare il proprio progresso e agire concretamente verso i 17 SDG, in modo completamente gratuito. Per ottemperare a questa richiesta il 29 gennaio 2020 è nato SDG Action Manager[1].
Sebbene dovrebbe essere obiettivo costitutivo di ogni impresa svolgere la propria attività in modo responsabile e attento a tutti i detentori di interessi (stakeholder), ci sono imprese che hanno optato per forme giuridiche che prevedono l’obbligo di rendicontare questo impegno (le Società Benefit – SB) o che hanno completato un percorso che lo certifichi (le B Corp – BC).
Nel seguito di questo testo analizzeremo brevemente le caratteristiche di SB e BC e rifletteremo diffusamente sul ruolo economico e sociale dell’impresa e delle ragioni per le quali molto spesso tale ruolo è frainteso e sacrificato ad altri interessi.
LE B CORP
I numeri relativi alle BCorp (BC) cambiano quotidianamente grazie alle nuove adesioni. Nel momento in cui scriviamo il movimento BC conta oltre 3.300 imprese operanti in 150 settori e in 71 Paesi, annovera 325.000 lavoratori e genera un fatturato complessivo di circa 73 miliardi di US$. Gli USA sono il Paese con il maggior numero di BC (circa il 40%).
L’Italia conta circa 100 società certificate, dato che cambia quasi giornalmente, a testimonianza del livello altissimo di attenzione verso questi temi da parte del nostro tessuto imprenditoriale tanto che è il Paese con il più alto tasso di crescita di BC nel mondo.
Il movimento BC italiano è alimentato dal lavoro di circa 9.000 persone e genera valore economico per circa 5 miliardi di Euro. Tra le aziende italiane che hanno ottenuto la certificazione si annoverano Chiesi Farmaceutici, la più grande azienda farmaceutica certificata nel mondo, Alessi, Fratelli Carli, Illy, Slow Food Promozione.
Tirelli & Partners srl Società Benefit è stata la prima società dell’intero comparto immobiliare italiano a ottenere la certificazione.
Per ottenere la certificazione le aziende devono dimostrare, attraverso la compilazione di un rigoroso assessment di oltre 300 domande (il B Impact Assessment o BIA) e un successivo processo di verifica condotto da B Lab di soddisfare severi standard di responsabilità sociale, performance ambientale e trasparenza.
LE SOCIETÀ BENEFIT
Percorso parallelo alla certificazione BCorp (BC) è l’adozione da parte dell’impresa dello status legale di Società Benefit (SB). Ciò avviene modificando lo statuto societario per inserire nel proprio oggetto sociale, oltre agli obiettivi di profitto, uno o più scopi sociali e/o di pubblica utilità. Secondo il dettato legislativo infatti le SB “perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse.” In tal senso rappresenta la SB un’evoluzione del concetto stesso di società.
Le SB sono state istituite in Italia con la legge 208/2015 entrata in vigore nel gennaio 2016. L’Italia è stato il primo Paese europeo a dotarsi di una legge sulle SB preceduta a livello mondiale solo dagli Stati Uniti. Hanno poi seguito questa direzione la Colombia (2018), la British Columbia (2019) e l’Ecuador (2020). Al momento una dozzina di Paesi nel mondo stanno discutendo il riconoscimento delle SB, con diversi stati di avanzamento secondo i rispettivi iter legislativi.
Secondo l’art. 2247 c.c., con il contratto di società “due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili”. Non è tra gli obiettivi di questo testo analizzare questioni di giurisprudenza, ma di fatto fino all’introduzione delle SB nell’ordinamento giuridico italiano non era possibile a una società indicare nel proprio statuto uno scopo diverso dalla distribuzione tra i soci degli utili prodotti.
Le SB sono chiamate ogni anno a definire obiettivi e target per ognuna delle finalità dichiarate e a rendicontare, attraverso la relazione d’impatto che si affianca al bilancio annuale, lo stato di avanzamento delle stesse.
Anche per le società benefit i numeri sono in continua evoluzione. Oggi in Italia si contano circa 500 aziende un numero dunque 5 volte superiore alla BC, a dimostrazione che si tratta di due percorsi paralleli che solo in alcuni casi l’azienda decide di percorrere insieme.
L’IMPRESA COME BENE COMUNE
Normalmente il parlare di impresa ha come focus di attenzione i prodotti/servizi, i mercati, le tecnologie, ecc. Insomma tutto ciò che ha a che vedere con le strategie grazie alle quali l’impresa decide che cosa fare. Si tratta di un aspetto importante, ma al contempo insufficiente a definire, identificare e comprendere a fondo la realtà di un’azienda. Se si guarda solo al che cosa fare le imprese si somiglieranno molto. Perché le differenze possano emergere occorre includere un ulteriore aspetto dell’essere impresa: quella del come fare. Questo perché il come fare impresa è connesso a una dimensione più profonda ed è la concreta attuazione delle risposte alla domanda sullo scopo ultimo per il quale si decide di fare impresa (il perché fare.) Mentre la dimensione del che cosa fare è relativamente neutra rispetto al perché farlo (con l’ovvia eccezione di prodotti/servizi con forti valenze contrarie all’etica ad esempio le armi, il gioco d’azzardo, la pornografia, ecc.), a diverse scelte sullo scopo dell’impresa (il perché) corrisponderanno diversi modi (il come) di rapportarsi dell’impresa con i propri detentori di interessi (i cosiddetti stakeholder ovvero i dipendenti, i clienti, i fornitori, i soci, la comunità) e con il mondo in generale.
SB e BC sono imprese che hanno deciso non solo di dichiarare apertamente il perché della loro esistenza, ma soprattutto di scegliere scopi e modi con un forte impatto sociale e ambientale positivo.
Come già evidenziato SB e BC appartengono al mondo delle imprese for profit e non al cosiddetto “terzo settore”. Le imprese che scelgono di diventare SB e/o ottengono la certificazione BC non sono enti benefici, fondazioni e simili, bensì imprese che, per poter realizzare la loro missione produttiva non possono esimersi dal soddisfare le attese di remunerazione concordate con i propri azionisti. Dalle decisioni di questi infatti dipendono gli investimenti per l’innovazione e lo sviluppo dell’impresa. È opportuno segnalare che le attese di remunerazioni degli azionisti di una SB o di una BC includono spesso una limitazione derivante dalla scelta dell’impresa di destinare una porzione di tali utili al perseguimento di obiettivi di beneficio comune.
SB e BC ci ricordano ciò che neoliberisti e sostenitori del primato degli azionisti (shareholder primacy) avevano dimenticato. L’impresa, anche quando è quotata in borsa, resta un organismo sociale, chiamato a operare per il bene di tutti e non invece un’entità alla spasmodica ricerca del profitto a beneficio degli azionisti[2]. E’ sotto gli occhi di tutti che l’attenzione concentrata sul solo profitto, anche a causa delle pressioni del settore finanziario per aumentare i risultati a breve termine, ha fatto sì che il “capitalismo degli azionisti” sia sempre più disconnesso dall’economia reale ovvero dalle persone. Questa forma di capitalismo oggi non è più sostenibile.
E’ chiaro a chiunque voglia tenere gli occhi aperti che i modelli economici “estrattivi” accelerano le disuguaglianze e il degrado dei sistemi sociali, oltre che di quelli ambientali. Quando l’economia ha come suo orizzonte il profitto a ogni costo si comporta come fosse la padrona del mondo, senza curarsi delle conseguenze negative dei propri comportamenti in altre parti della Terra e per le generazioni future. Se vogliamo che il mondo resti un luogo accogliente per tutti, non possiamo pensare che questo sia compito esclusivo dei governi, sovranazionali, nazionali o locali che siano. Occorre invece che le aziende diventino forza positiva di cambiamento ridefinendo le priorità che ne guidano l’azione: il benessere delle persone, la coesione sociale e la rigenerazione dei sistemi naturali devono diventare il cuore dei paradigmi economici “a prova di futuro”.
Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum www.weforum.org, ipotizzò 50 anni fa una forma di capitalismo alternativa a quello degli azionisti che definì dei “detentori di interessi” (stakeholder capitalism). Cosa distingue le imprese di questo modello dalle altre? In queste aziende il profitto semplicemente non è l’unico fine da perseguire a ogni costo, è bensì uno degli obiettivi interconnessi in un sistema nel quale risultati economici, competitivi, sociali e ambientali sono legati tra loro da relazioni circolari di causa-effetto. In questo modello anche la proprietà del capitale sociale è distinta da quella dell’impresa che “è un bene comune, di tutti e per tutti, da rispettare, servire e da gestire con responsabilità, in armonia con quello di tutti i portatori di interessi e del suo territorio”.[3]
Questo sentiero del sistema economico capitalista è condiviso certamente da Società Benefit (SB) e BCorp (BC), ma percorrerlo è possibilità aperta a ogni azienda.
È interessante notare che al tavolo dei sostenitori del capitalismo “dei detentori di interessi” sembrano affacciarsi negli ultimi anni nuovi e molto importanti interlocutori.
E’ il caso della Fondazione Rockfeller che già nel 2014 annunciò che avrebbe smesso di investire in società coinvolte nel settore dei combustibili fossili dirottando i fondi verso il settore delle energie rinnovabili. Da allora numerosissimi fondi privati e istituzionali hanno fatto altrettanto. Secondo il Global Trends in Renewable Energy Investment 2019 gli investimenti in energie rinnovabili nel decennio 2010-2019 hanno superato i 2.500 miliardi di US$ quadruplicando la capacità produttiva.
È il caso di The Business Roundtable, il gruppo di lobby d’affari più influente d’America, che nell’agosto del 2019 ha rilasciato lo Statement on the purpose of a corporation con il quale abbandona il principio della shareholder primacy e abbraccia formalmente lo stakeholder capitalism. Nel documento infatti viene sancito, per la prima volta, il principio che le imprese devono essere governate allo scopo di creare valore per tutti i portatori di interessi ovvero:
- i clienti, per superare le loro aspettative;
- i dipendenti, investendo su di loro, remunerandoli in modo giusto, fornendo benefit importanti, supportandoli con formazione e educazione per la creazione di nuove competenze in un mondo in rapido cambiamento;
- i fornitori grandi e piccoli, trattando tutti in maniera etica;
- le proprie comunità, supportandole e curandosi dell’ambiente;
- gli azionisti, generando valore azionario di lungo termine.
E’ infine il caso anche dei cosiddetti impact investment il cui volume è cresciuto sensibilmente da quando qualcuno pensò di collegare vantaggi ambientali e sociali ai rendimenti finanziari. Il Global Impact Investing Network stima che il valore totale del settore alla fine del 2018 abbia superato i 500 miliardi di US$.[4]
Quest’anno, in occasione del suo 50° anniversario, il World Economic Forum ha pubblicato un nuovo “Davos Manifesto” che attualizza i principi del capitalismo dei detentori di interessi sanciti in quello originario descrivendo le principali responsabilità di un’azienda nei confronti dei propri stakeholder quali, ad esempio, quello di pagare la propria giusta quota di tasse, di mostrare tolleranza zero per la corruzione, di difendere i diritti umani in tutte le proprie catene di approvvigionamento globali, di fare un uso sicuro, etico e dei dati e delle informazioni personali.[5]
Per avviare questo cambiamento di paradigma serviranno nuove metriche, da affiancare a quelle finanziarie standard, con le quali le aziende possano misurarsi ed essere misurate[6]. Serviranno però anche necessari nuovi meccanismi di remunerazione dei dirigenti. Dagli anni ’80, infatti, i mercati finanziari hanno cercato di allineare gli interessi del management a quelli degli azionisti attraverso il meccanismo delle stock option, con il risultato di aver fatto salire alle stelle la retribuzione dei manager perdendo ogni parametro di riferimento con quella degli altri lavoratori. Analizzando lo stipendio del Chief Executive Officer in 100 tra le principali società americane quotate si è evidenziato che nel 2018 la retribuzione è stata 254 volte quella dell’impiegato medio (era 237 nel 2017), con una variabilità tra 1.424 (Walt Disney) e 7 (Berkshire Hathaway)[7]. È l’applicazione pratica della fallace “teoria dell’agenzia” e una conseguenza non adeguatamente riflettuta della “meritocrazia”, termine spesso utilizzato come panacea per la soluzione di ogni problema, del cui significato originale però si è persa completamente la memoria storica.
Il termine “meritocrazia” apparve per la prima volta nel 1958 nell’opera Rise of the Meritocracy del sociologo britannico Michael Young. Nell’accezione originaria il termine aveva un senso totalmente dispregiativo. “Il libro tratteggiava lo scenario di un futuro distopico in cui la posizione sociale di un individuo veniva determinata dal suo quoziente intellettivo e dalla capacità di lavorare. Nell’opera, l’oppressione generata da tale sistema sociale finisce per portare a una rivoluzione in cui le masse rovesciano i governanti, divenuti arroganti e distanti dai sentimenti del popolo”.[8] Oggi al termine viene comunemente data un’accezione positiva tesa a indicare che ruoli di responsabilità pubblica o privata devono essere allocati in funzione delle capacità dei singoli. Un principio che ha certamente un solido fondamento, ma che, nella sua applicazione pratica, spesso diventa però fonte di privilegio e di creazione di eccessive disparità.
Tralasciando, per brevità, di argomentare il concetto di “capacità dei singoli” e la possibilità di identificare in maniera univoca tali capacità e di misurarle, ciò che non funziona nell’applicazione della meritocrazia è che a coloro che sono giudicati “i migliori” (o che molto spesso si autogiudicano tali grazie alla posizione di potere acquisita) competa nella pratica una quota delle risorse dell’azienda così prevaricante rispetto agli “altri” da essere giustamente percepita come mancante di equità.
Nei fatti si tratta di una logica che:
- legge le capacità lavorative solo come il risultato di uno sforzo individuale (capacità conquistate per merito, non ricevute anche per fortuna, caso o altro, né tantomeno ricevute in dono);
- legge il successo economico dell’azienda come il risultato dell’attività di un ristretto gruppo di persone e non dell’intero team di collaboratori;
- privilegia alcuni tipi di capacità ad altre (ad esempio le capacità di pensare/programmare dei manager rispetto a quelle più operative degli operai);
- è capace di dare senso e valore solo al lavoro di alcuni e non di altri (i più bravi, i più brillanti, i più “qualcosa”, mentre per i “meno” non c’è posto disponibile);
- divide invece che unire, separa invece di includere;
- dimentica i bisogni e le necessità dei più deboli.
Per fare funzionare bene le imprese bisogna certamente tenere conto anche dei “meriti” ovvero dell’impegno e delle comprovate competenze e capacità di tutti i collaboratori, ma occorre farlo con equilibrio ed equità, contenendo entro un limite ragionevole il rapporto tra retribuzioni del top management e degli altri collaboratori e ricordandosi contemporaneamente che il giusto salario per alcuni non può essere funzione solamente dell’attività svolta, bensì anche della necessità di una vita dignitosa della persona.
Occorre dunque affiancare alla valutazione del merito un’altra regola. È la regola per cui anche in azienda i diritti e i doveri non sono uguali per tutti: i diritti sono proporzionali a quanto manca (per una vita dignitosa); i doveri invece a quanto abbiamo. In questa prospettiva il merito e le capacità diventano l’occasione per “fare bene insieme” valorizzando il lavoro di tutti, la collaborazione solidale e l’armonia tra le persone fuori e dentro l’azienda e non quello per “fare da soli” creando competizione, contrasto e disparità.
È caratteristico di Società Benefit (SB) e BCorp (BC) prevedere regole di remunerazione di collaboratori e soci che impediscono eccessive disuguaglianze e riconoscono che i risultati economici sono sempre il frutto del lavoro di tutto il team. Ad esempio è spesso previsto un limite al wage gap tra il dipendente più pagato e quello meno pagato e nel caso a posteriori si riscontri il superamento del limite l’azienda interviene con un bonus per riallineare il rapporto. In Tirelli & Partners tale rapporto massimo è pari a 7 volte.
Dotarsi statutariamente di un wage gap – in imprese di piccole dimensioni – può consentire di trattenere una porzione maggiore delle risorse economiche prodotte, risorse che potranno essere utilizzate per finanziare finalità di beneficio comune interne o esterne all’azienda stessa oppure essere reinvestite in sviluppo e innovazione, dando realizzazione concreta alla funzione sociale dell’impresa, alla cura delle persone e dell’ambiente e contribuendo al perseguendo di uno sviluppo duraturo.
Similmente nello statuto di SB e BC può essere inserito che una porzione degli utili aziendali non venga distribuita agli azionisti, ma contribuisca al perseguimento di finalità di beneficio comune. In Tirelli & Partners ad esempio il 20% degli utili viene destinato alla formazione e educazione finalizzata alla diffusione:
- della conoscenza di modelli di impresa a prosperità condivisa e ad alta responsabilità sociale, attraverso i quali le persone possano soddisfare i propri bisogni umani fondamentali che sono la base della felicità;
- di pratiche e modelli di impresa “a prova di futuro” per accelerare una trasformazione positiva dei paradigmi economici, di produzione, di consumo e culturali, affinché incorporino la sistematica rigenerazione dei sistemi naturali;
- della conoscenza del modello B Corp e della forma giuridica di Società Benefit;
- dei temi del vivere responsabilmente e in armonia con gli altri e con la Terra.
CONCLUSIONI
Mettere al centro le persone significa avere la felicità di tutti come obiettivo e avere rispetto per la propria interezza di esseri umani. Lavoro e vita privata non possono essere porzioni di esistenza gestite secondo due morali opposte: nella prima, in nome del profitto, si sfrutta, si degrada, si inquina; nella seconda si utilizza una porzione (peraltro molto marginale) dell’ingiusto profitto per fare beneficienza.
Fare impresa in modo responsabile è questione di scelte, non di dimensioni. Creare un’attività imprenditoriale aperta all’innovazione, che si doti di un sistema di obiettivi legati da relazioni dinamiche di causa-effetto di tipo circolare, che sia gestita con “spirito di amore e di intelligenza che faccia fiorire l’impresa, realizzando le potenzialità di chi in essa lavora, fertilizzando il territorio e perseguendo il bene comune del Paese e della società tutta”[9] e così facendo metta al centro di essa la persona umana nei suoi diversi ruoli è possibile alla grande corporation come alla piccola impresa familiare.
In un mondo globale popolato da oltre 7 miliardi di persone è evidente che i comportamenti umani migliorano o peggiorano anche per emulazione. La capacità dell’esempio di creare cambiamento, e di farlo in tempo insospettabilmente breve, è sotto gli occhi di tutti. Basta pensare alla velocità con la quale si diffondono in tutto il mondo grazie ai media comportamenti quando adottati da persone con grande seguito (ad. esempio calciatori, personaggi pubblici, rockstar, ecc.). Il buon esempio è una fonte alternativa di coscienza civica e di senso di responsabilità, molto meno faticosa e impegnativa della cultura e dell’educazione. Per questo è essenziale che chi fa impresa in modo responsabile sia aperto a condividere la propria esperienza affinché altri possano essere ispirati a scegliere un modello di economia e di impresa a prova di futuro. Perché il successo non dipende solo da ciò che realizziamo nella nostra attività. Dipende da ciò che di buono ispiriamo gli altri a fare.
L’auspicio è che cresca sempre più l’attenzione, la stima, il sostegno e lo sviluppo di modelli di imprese come le SB e le BC che con il loro impegno quotidiano forniscono il proprio contributo allo sviluppo di un modello di economia socialmente responsabile, sostenibile sotto il profilo ecologico e attenta a ciò che rende il mondo giusto, bello e umano.
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[1] https://www.unglobalcompact.org/take-action/sdg-action-manager
[2] Magari con l’aggravante di averlo focalizzato su di un orizzonte temporale di breve periodo grazie al forzoso allineamento di intenti tra azionisti e manager garantito dal sistema di bonus di questi ultimi i quali, nella gestione di molte imprese, sembrano spesso ispirati più dal valore delle stock options ricevute che dal bene dell’azienda.
[3] Vittorio Coda, L’impresa siamo noi, economia&management, Rivista della Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Luigi Bocconi fondata da Claudio Demattè, n. 1 gennaio/marzo 2020.
[4] https://thegiin.org/ L’ammontare degli asset finanziari alla fine del 2018 ammontava a circa 360 trilioni di US$
[5] “2020 The Universal Purpose of a Company in the Fourth Industrial Revolution” Manifesto of WEF Davos
[6] Un’iniziativa per sviluppare un nuovo standard in questo senso è già in corso, con il sostegno delle 4 maggiori società di revisione (The big four) e guidata dal presidente dell’International Business Council, Brian Moynihan, CEO di Bank of America.
[7] Equilar Report 2018 https://www.equilar.com/reports/63-table-highest-paid-ceos-2019-equilar-100.html
[8] Wikipedia italiana termine “meritocrazia”.
[9] Vittorio Coda, L’impresa siamo noi, economia&management, Rivista della Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Luigi Bocconi fondata da Claudio Demattè, n. 1 gennaio/marzo 2020.
Marco Ettore Tirelli è fondatore della Tirelli & Partners Società Benefit
Tirelli & Partners Società Benefit è Socia sostenitrice del Complexity Institute
Per contattarci:
complex.institute@gmail.com
Cell. +39-327-3523432
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