L'intelligenza è una capacità relativa al contesto
Technology vs humanity: il dilemma che inganna
di Dario Simoncini
Noi chiamiamo solitamente intelligenza i processi alimentati dalla forza del cervello, e questa intelligenza può essere misurata da test come la forza fisica o da altri strumenti riflessivi. (…) È nella struttura del cervello umano essere costretti ad ammettere che due più due fa quattro. (…) È evidente che questa forza cerebrale e i processi logici obbligati che genera non sono in grado di edificare un mondo (…).
(Hanna Arendt)
Qual è il motore dell’azione umana? Tra il 1879 e il 1880, Fëdor Dostoevskij, pochi mesi prima della sua morte, scrive sul dilemma tra ragione e passione, intelletto e libera espressione dell’umanità, tra riflessione e istinto. Durante un dialogo interiore, così parla Ivan – uno dei tre fratelli Karamazov – attraverso le parole della sua anima antagonista: “Se sulla terra tutto fosse secondo ragione, non accadrebbe mai nulla. Senza di te non ci sarebbero avvenimenti di nessun genere, e invece bisogna che ci siano (…). Gli uomini prendono questa commedia per una cosa seria, malgrado tutta la loro discutibile intelligenza. E proprio in ciò sta la loro tragedia (…). (Io) Sono l’incognita in una equazione indeterminata. (Tu) Ti arrabbi sempre, non vorresti che intelligenza, sempre intelligenza mentre io darei tutta la vita solo per potermi incarnare nell’anima di una bottegaia che pesi un quintale e per poter accendere qualche candela a Dio”.
Dopo circa un secolo, nel 1995, Herbert Simon, premio Nobel per l’economia, scrive: “Ciò che io dimostrerò è, primo, che la presenza o l’assenza di fenomeni come insight, intuizione e ispirazione spesso ritenuti ineffabili possono essere determinati oggettivamente e, secondo, che alcuni programmi informatici sono dei meccanismi in grado di descrivere e spiegare questi fenomeni”.
Dalla Repubblica on line del 12 aprile 2018: “Knowhere mette insieme le informazioni attingendo da migliaia di siti di news di tutto il mondo, a ciascuno dei quali i creatori dell’algoritmo hanno associato un diverso peso in base alla relativa credibilità e reputazione. L’algoritmo (…) colloca, in base al grado di parzialità valutato, tutti gli articoli pubblicati sul tema. A quel punto, rimasticando le informazioni raccolte, in capo a un quarto d’ora sforna la versione imparziale della notizia, quella che idealmente si collocherebbe al centro della mappa”. Dunque: manca solo il correttore artificiale che sostituisca la capacità di discernere dell’uomo e … poi ci sarà l’imparzialità, quella priva di ogni giudizio e di ogni influenza!
A partire dalla rivoluzione scientifica del XVII secolo, il bisogno dell’uomo di dominare e di porre sotto il proprio controllo gli avvenimenti investendo risorse sulla “meccanica dei processi decisionali” si è andato sempre più sviluppando. Il mondo occidentale è sempre più dominato da un approccio all’educazione fondato sulla convinzione che le capacità cognitive debbano essere considerate l’unico motore efficace dell’azione umana. L’istruzione tecnica, specialistica e scientifica è diventata sempre più invasiva mentre le democrazie per essere sostanziali dovrebbero essere chiamate a creare le condizioni per favorire uno stato di benessere, sia economico che sociale, attraverso un’apertura delle menti ed un pieno sviluppo delle capacità personali e collettive.
Quali implicazioni a livello manageriale? Qual è l’intelligenza che conta? Si gestiscono le organizzazioni nella convinzione che l’approccio logico riflessivo sia l’unico che possa guidare le persone nel compiere scelte secondo criteri di “oggettività” e, dunque, l’unico a garantire che le decisioni prese siano le migliori possibili. L’intelligenza che conta è quella calcolata dal fatidico QI. Le misurazioni efficienti sono quelle lineari: a parità di condizioni, cosa succede alla quantità X se io modifico anche di poco la quantità Y?
In questo modo, tutto, sulla carta e nelle nostre menti, può apparire più chiaro; sulla base del perimetro di queste relazioni di causa-effetto interpretiamo i fenomeni, ne spieghiamo gli andamenti passati e prospettici, decidiamo ed agiamo. L’intelligenza resta però chiusa nella gabbia della causalità. E così sono sempre più diffuse le situazioni in cui si compiono gravi errori gestionali; tant’è che gli studi di “neuro-economia” hanno ampiamente e ripetutamente dimostrato gli effetti indesiderati causati dai cosiddetti “bias cognitivi”. Nell’epoca della digitalizzazione e della robotizzazione l’inganno dell’oggettività si rinforza; l’illusione manageriale che una centratura sulle abilità cognitive personali possa condurre al successo nelle grandi sfide di sostenibilità del nostro tempo è sempre più invasiva, coinvolgente e rassicurante. Lo sviluppo tecnologico si sta nutrendo in modo preponderante della credenza che la razionalità sia la sola fonte di certezza e verità ed anche l’unica espressione del potere dell’uomo sulla natura; per garantire la nostra sopravvivenza è necessario riprodurre e rendere scalabili ed esponenziali le capacità logico riflessive dell’uomo mediante l’applicazione dell’intelligenza artificiale ad ogni tipo di attività. Per alcuni questo è divenuto un vero e proprio imperativo: il predominio dell’abilità cognitiva sta spingendo sempre più la scienza ad affidare alla tecnologia le sorti dell’umano.
Ma è vero antagonismo? Tra “technology e humanity” si stanno generando attriti e sfridi sempre più robusti dato il bisogno antagonista dell’umano di affermare, riconoscere e valorizzare la persona e le sue relazioni di gruppo. D’altronde, il senso dello stare in un’organizzazione si può formare solo nella relazione tra tecnologia e umanità che invece tende ad assumere sempre più un carattere dicotomico. L’azione viene sempre più stressata: bisogna scegliere o l’una o l’altra. Un dilemma organizzativo che continua ad ingannare.
Per uscire da questo inganno, in un affascinante libro del 2016 dal titolo Technology vs. humanity il futurologo Gerd Leonhard ci richiama con veemenza ad assumere una maggiore consapevolezza sull’importanza – da ritenersi, senza alcun dubbio, assolutamente decisiva – del ricorso da parte dell’uomo al proprio potere di indirizzo e di valorizzazione della tecnologia, da trattare quale strumento di nuove possibilità e non come fine evolutivo in sé. L’efficacia della tecnologia dipende dal modo con la quale viene effettivamente sviluppata e resa disponibile alle persone. Assumere quale presupposto evolutivo e di sviluppo sostenibile la rilevanza dell’azione umana vuol dire rivolgere la nostra attenzione al come si decide di manifestare le nostre intenzioni indirizzandole o meno ad un miglioramento della vita delle organizzazioni sociali. Diventa centrale, dunque, la qualità delle azioni compiute e delle relazioni che ognuno di noi pone in essere con gli altri e con il mondo che lo circonda. Ai fini dell’analisi dell’azione personale ciò che rileva è che tecnologia ed umanesimo vengano posizionati su due livelli diversi di interpretazione: la tecnologia è una raffinata strumentazione, l’umanesimo è la sua effettiva ragion d’essere.
Questo articolo è stato pubblicato su Wall Street International Magazine il 23 luglio 2018
La foto di copertina è di Gerd Haltmann da Pixabay
Dario Simoncini è Vice-Presidente del Complexity Institute. Professore di Organizzazione e Management della Complessità, Università di Chieti-Pescara.
Per contattarci:
complex.institute@gmail.com
Cell. +39-327-3523432
Condividi:
- Fai clic qui per stampare (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic per inviare un link a un amico via e-mail (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic per condividere su Telegram (Si apre in una nuova finestra)
- Fai clic per condividere su X (Si apre in una nuova finestra)